attenta a non usare
con presunzione quel passato, pronta ad accogliere il nuovo
con umiltà, ma mostrando e pretendendo rispetto per una formazione
costruita con sacrificio e che ha dato forma e senso ad una
professione.
Sono approdata
poco più di un anno fa alla Scuola secondaria di primo grado,
dopo venticinque anni di insegnamento nella Scuola dell’infanzia,
anni di investimento personale e professionale.
Un incontro traumatico
col nuovo, con ciò che non è noto, che non è familiare, ma
un’occasione per rimettersi in gioco; un’opportunità per incontrare
il mondo dell’educazione in forme espressive diverse, in un
altro contesto, dove cambia l’approccio, l’età, il tipo di
relazione. La fatica più grande è stata proprio fare i conti
col “sembra tutto diverso”, con l’impressione di dover ricostruire
completamente un’identità professionale, per scoprire, poi,
pian piano, che il punto d’incontro è nella “materialità educativa”
(Riccardo Massa), cioè nel rapporto tra spazi, tempi, corpi
e le molteplici connessioni con la materialità della vita,
con gli affetti, con le pratiche, con tutto ciò che crea connessioni
tra esperienze, con ciò che dà il senso della continuità tra
quello che nel mondo dell’educazione rappresenta l’inizio
di un cammino di crescita (la scuola dell’infanzia) e quello
che è solo una tappa diversa del percorso di crescita stesso
(scuola secondaria di primo grado).
Ogni giorno faccio
i conti con la fatica di diventare padrona della disciplina
che insegno, alleno abilità che non avevo avuto ragione di
allenare finora; è ogni giorno un provarsi, un osservare mentre
mi sento osservata e giudicata, un continuo ricercare il modo
per correggere il tiro, per scoprire e migliorarsi.
In un contesto
in cui non avrei mai immaginato di poter essere a questo punto
della mia vita, ogni mattina ritrovo il meraviglioso e faticoso
mondo dell’educazione, dove si educa alla vita soprattutto,
dove la relazione conta e conta molto più di quanto possa
apparire agli occhi di chi, come me, viene dal luogo della
prima infanzia.
Resta un lavoro
di cura, certo ad un livello diverso, ma che non può aver
ragione di esistere senza quella cura autentica che c’è dietro
il tentativo di svelare, dietro la curiosità che spinge a
scavare, dietro le strategie che si adottano per provare a
rivelare abilità, talenti, modi di essere e di saper stare
al mondo.
L’età dei ragazzi
è diversa, ma il bisogno di ascolto resta, resta la cura per
la relazione, di cui sento di essere responsabile più di prima
in quanto educatore; rimane in me ferma la convinzione che
il piacere nasca dalla motivazione, dal senso che i ragazzi
attribuiscono alle proposte, le quali, come diceva Bruner,
dovrebbero “perturbare la quiete”, far nascere la curiosità,
affinché essi siano protagonisti attivi del processo di apprendimento.
Tutto ciò è facile
da dire, è facile per ribadire a se stessi quali sono i principi
saldi su cui si fonda il proprio modo di lavorare, ma anche
di vivere, per quel legame profondo che lega la biografia
professionale a quella personale. Spesso, però, mi ritrovo
a fare i conti con la frustrazione, perché quello che funziona
in un contesto, in un tempo, con un gruppo, non è adeguato
né funzionale altrove.
È faticoso scontrarsi
con la rigidità di certi schemi, che caratterizzano un modo
di fare scuola che non condivido e a cui non voglio adeguarmi
in maniera passiva, dove ancora prevale la lezione frontale,
dove la programmazione rigida non dà spazio all’idea progettuale,
alla flessibilità e all’analisi consapevole delle fasi di
un progetto, che deve essere vissuto, provato, monitorato,
la cui scrittura è solo la sua parte finale, dove la fine
non è altro che il punto da cui ricominciare.
Questo è quello
da cui vengo, quello su cui ho investito, quello in cui ho
imparato a credere e a volte ho la sensazione che “il sistema”
mi chieda di dimenticarlo; è a quel punto che torna forte
la necessità di lavorare per valorizzare le esperienze che
mi hanno portato fin qui.
Lasciare le proprie
certezze, tutto ciò che si crede di saper fare, di saper gestire,
tutte le consapevolezze, i limiti riconosciuti, le virtù che
l’occhio di chi te le riconosce finisce per dare per scontate,
è difficile; lasciare tutto ciò che è dato, che è certo è
faticoso, ma ti costringe ad aprire il cassetto delle risorse,
a scegliere quelle da rimettere in gioco.
Mi era già capitato
quando, seguendo il cuore, avevo lasciato il sicuro mondo
delle radici e degli affetti per far nascere la mia famiglia,
e ho scoperto anche lì che ogni giorno si cerca nelle proprie
radici la forza per volare in altri luoghi della vita.
Ho scoperto che
ho svelato a me stessa e agli altri potenzialità e limiti
che non credevo esistessero in me, finché non ti viene chiesto
di tirare fuori dal cassetto delle risorse quelle mai sperimentate,
non puoi sapere fin dove puoi spingerti. Non si spiegherebbe
altrimenti il modo in cui provo a stare al mondo oggi, considerando
l’immobilità che ha caratterizzato gran parte della mia vita,
costrizione dettata dai luoghi in cui ero vissuta, dalla cultura
in cui si inseriva il mio tentativo di emergere; ma niente
può e deve essere raccontato come determinato da certe esperienze,
perché se le occasioni ti aprono finestre su nuovi scenari
la libertà di scegliere di viverli deve essere proporzionale
alla capacità di perdonare e perdonarsi per l’immobilismo
in cui si era rimasti incastrati prima. Solo così si vive
“addizionando le esperienze”, facendone mattoni utili alla
costruzione della propria crescita.
La vita è fatta
di passaggi, di cuciture, di ponti tra un’esperienza e un’altra,
di ricerca, ma anche di rispetto e riconoscenza per ciò che
abbiamo vissuto e ciò che ci è dato di vivere.
È
possibile contattare Adriana Vasaturo attraverso l'indirizzo
internet
della redazione scientifica di Ididlab: infogestione@infogestione.com
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