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Interviste improbabili - Giacomo Matteotti
Note biografiche della docente: Annalisa Martino

 



Annalisa Martino

Scelte professionali
La mia vita professionale prende avvio agli inizi degli anni Ottanta. Era un momento favorevole per la scuola. Un momento ricco di novità e di cambiamenti. Una bella fase, insomma, che recava in sé promesse di crescita e di progresso sociale.
Avevo appena conseguito una laurea in filosofia e, sin dagli ultimi anni del mio percorso universitario, avevano preso corpo in me forti idealità di giustizia e di uguaglianza. Sono riconoscente ai miei studi perché mi hanno insegnato a problematizzare la realtà e a coglierne anomalie e contraddizioni. Hanno inoltre impresso al mio agire una spinta vitale che mi vietava di accontentarmi dello status quo, se questo era fonte di insoddisfazione e di disagio. Avevo vent’anni, anno più anno meno, tanta sete di vita e tanta voglia di cambiare il mondo.

Fu proprio tale tensione al cambiamento che mi indusse a guardare con interesse alla scuola dell’obbligo, territorio privilegiato di formazione e di crescita.

Milano
Partii giovanissima per Milano, con una laurea in tasca. A quei tempi una laurea era ancora qualcosa, tanto che non tardai a inserirmi nel mondo del lavoro. Scarsissimo precariato, ruolo immediato. La normalità, a quei tempi. Un privilegio, oggi, una fortuna per pochi.
Che cosa ha significato per me venire a Milano? Posso sintetizzarlo in una celebre battuta di Troisi nel film “Ricomincio da tre”. Al protagonista del film, diretto al Nord, si chiedeva: “Emigrante?” e lui: “No, turista!”. Per sfatare il luogo comune, anch’io precisavo, non senza un certo orgoglio, che no, non ero un’emigrante, ma una giovane insegnante, desiderosa di fare esperienze e di mettermi in gioco. Credevo nella forza dirompente della scuola, nella sua capacità di emancipare, nobilitare e offrire a tutti reali opportunità. Credevo nella sua forza inclusiva e di valorizzazione delle diversità.
Il lavoro ha rappresentato per me una bellissima scoperta. Milano era una fucina di esperienze. Le scuole milanesi pioniere nel campo dell’innovazione, della didattica laboratoriale, della ricerca. Ciò che più mi convinceva era il rigore metodologico e scientifico con il quale tali esperienze venivano condotte. Non mancavano gli slogan che inneggiavano a un approssimativo spontaneismo mascherato di creatività. Sirene che, di sicuro, affascinavano, ma che non tardarono a rivelarsi per quello che realmente erano: parole vuote e proposte prive di fondamento.

Fondamenti teorici
Mi accostai a quelle scuole di pensiero che mi sembravano più feconde di suggerimenti e mi convinsi che non avevo appeso al chiodo la mia laurea in filosofia, come avevo erroneamente creduto. Le mie conoscenze mi davano sicurezza e a un tempo mi offrivano significative chiavi di lettura di quanto andavo via via scoprendo, fondendosi con le nuove suggestioni psicopedagogiche. Il cognitivismo, Vygotsky, Bruner, Ausbel, Popper, Antiseri, Boscolo, Pontecorvo, Novak furono alcuni tra i preziosi maestri che mi aiutarono ad alimentare quella impalcatura teorica che doveva sostenere il mio viaggio di docente. Non mancarono le delusioni, inevitabili nella faglia che si interpone tra teoria e pratica, che imparai tuttavia a mettere in conto. Non mi muovevo in una scuola ideale e, di sicuro, non tutte le ciambelle uscivano col buco. A volte mi rendevo conto che alcune esperienze, come per esempio, l’apprendimento cooperativo, la metacognizione, la negoziazione di significati o l’applicazione del metodo sperimentale, erano improponibili in determinati contesti. Ho imparato a incassare e, fedele a un’impostazione popperiana, ho imparato a vedere il problema non come un insuccesso, ma come uno scoppio di meraviglia, un punto di partenza che mi avrebbe aiutato a crescere.

Tecnologie e didattica
Un grande aiuto, nel mio percorso, mi è stato offerto dalla scoperta, in tempi non sospetti, dell’efficacia delle tecnologie. L’utilità delle tecnologie applicate alla didattica. Non si era ancora subissati, con la stessa intensità di adesso, da continue sollecitazioni informatiche, ma si iniziava a capire quanto aiuto potessero dare nei processi di apprendimento. Erano i primi anni Novanta e chiesi una linea internet per la mia scuola - allora ero responsabile di hardware e software dell’istituto – ma gli amministratori comunali mi guardarono con sospetto. “Perché le tecnologie a scuola? Perché un laboratorio d’informatica come quello da lei prospettato?” mi chiesero stupiti e un po’ contrariati. “Per tanti motivi,” risposi ” il primo: i linguaggi multimediali sono linguaggi familiari ai nostri alunni, non possiamo non tenerne conto; secondo: le tecnologie, almeno nella scuola dell'obbligo, non devono essere un fine ma un mezzo, che può rivelarsi efficacissimo nello studio, in quanto motiva ed offre importanti dispositivi di ricerca per affrontare contenuti anche complessi; terzo: la modalità di approccio, che le tecnologie attivano, improntata talvolta a una ricerca che si basa sui tentativi ed errori, apre la mente e aiuta a costruire percorsi autonomi di conoscenza.” Sono passati circa vent’anni da allora. Ho assistito a una pervasività eccessiva delle tecnologie. La scuola ha spesso scimmiottato il mondo esterno ricorrendo a un uso talvolta esagerato del mezzo informatico e del web e trascurando altri strumenti come la fonte orale, la narrazione, i messaggi non verbali, la motricità fine dell’uso della penna e del corsivo, la centralità stessa delle materie tradizionali. Si è assistito a una svolta professionalizzante e tecnicistica della scuola, con gravissimo nocumento dell’apprendimento di alcune discipline. Prima tra tutte l’italiano. Il nuovo millennio è stato salutato con lo sventolamento della bandiera delle tre “i”. Ma tra queste “i” non c’era quella di italiano.

Crisi della scuola e bilanci personali
Se devo dirla tutta, ho sofferto e soffro dello scempio che viene perpetrato, oggi, a danno della nostra lingua. Uno degli aspetti che ho sempre amato del mio lavoro e l’opportunità che esso mi offriva e mi offre di giocare con lingua, di fruire dell’infinita magia delle parole. Di creare parole. Do molto spazio a questo aspetto e dedico al testo scritto una buona fetta del mio impegno didattico. Ciò mi consente di alimentare il mio amore per la scrittura, che è diventato esso stesso nutrimento per il mio lavoro e che cerco in vario modo di trasferire ai miei allievi. Talvolta con risultati apprezzabili, talaltra con brucianti insuccessi.
La mia vita professionale è stata costellata da momenti di grande soddisfazione e da difficili fasi di riflessione e di amaro rincrescimento. Continuo ad amare il mio mestiere e scopro ogni giorno virgole di luce e scampoli di potenza creativa che danno slancio vitale al mio agire. Devo riconoscere, però, che è un difficile momento quello che stiamo vivendo, e la scuola, purtroppo, risente non poco di questa contingenza negativa. Il guaio è che in tutti questi anni, in nome di una innovazione che fosse al passo coi tempi, sono state privilegiate le esigenze di facciata delle singole scuole e la loro possibilità di spendersi sul mercato, rispetto a finalità imprescindibili come quella, per esempio, di mettere gli studenti nella condizioni di parlare e scrivere un italiano corretto.
Purtroppo, nella scuola, ha via via preso piede una logica aziendalistica che si è fatta beffa delle lettere, della grammatica, della sintassi, della storia e della filosofia, ritenute inutili passatempi per sibariti dediti all’ozio e alla mollezza dei costumi. La priorità degli apprendimenti ha ceduto il posto alla centralità degli adempimenti formali, come se fossero più importanti i tempi, i luoghi e le circostanze in cui si apprende (per poter poi provare che tutto sia avvenuto in ottemperanza alla normativa vigente) rispetto a ciò che si apprende. Nel corso degli anni ho preso le distanze da tutte queste posizioni, che nell’attuale fase del mio percorso, critico fortemente, nella ferma convinzione che prima di tutto venga la conoscenza e che tutte le discipline siano utili. Anche quelle umanistiche. Anzi, sono queste stesse che aprono gli occhi, rendono critico il pensiero, liberano dalle catene dell’ignoranza e permettono di vedere la realtà e non solo le sue ombre. Credo tristemente che la retorica dell’inutilità di tali discipline sia utile a una logica di sopraffazione. È più vantaggioso creare dei tecnici disciplinati e acquiescenti, fedeli esecutori, sudditi insomma, piuttosto che cittadini attenti e critici. In poche parole, la lingua, parlata e scritta, e le lettere in generale, fanno bene al pensiero, ne aiutano i meccanismi, li rendono più fluidi. Ma, soprattutto, creano cittadini onesti e consapevoli. Oggi, più che mai, ce n’è bisogno. E, finché ne sarò convinta, mi sentirò orgogliosa del mio ruolo di insegnante.

È possibile contattare Annalisa Martino attraverso l'indirizzo internet
della redazione scientifica di Ididlab: infogestione@infogestione.com

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Titolo: "Note biografiche del docente" - Codice: I170111.1800.DDE.AR.man/IIDI1703140913MANa1 - Autore:
INFOGESTIONE - Data di pubblicazione e di ultimo aggiornamento: 31/01/2017 - 17/03/2017.
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